LA FESTA DI SAN GIOVANNI, LA CERIMONIA TUPY DELL’ANCESTRALE SPIRITO DI LUCE, ARIA, ACQUA E TERRA CHE VENIVA CELEBRATA NEL SOLSTIZIO D’INVERNO
In Brasile quella che viene chiamata Festa Junina è il capodanno nella cultura Tupy.
E’ una festa che si celebra nel mese di giugno, il giorno del solstizio d’inverno, e nell’emisfero australe è una cerimonia intrisa di simbologia legata alla filosofia cosmologica, nella quale il popolo Tupy si riconosce tutt’ora nonostante sia stato costretto al sincretismo, e le cerimonie siano state vietate nello sradicamento totale della loro cultura soppiantata da una selvaggia civiltà maschile.
Con il sincretismo le ricorrenze religiose Tupy sono state svuotate e sostituite da feste che non hanno più nulla di spirituale, cosa che caratterizzava tutti i cerimoniali Tupy. Fortunatamente la tradizionale festa di inizio dell’anno è stata sempre celebrata dalla mia famiglia in Villa Gandhi, unendo entrambe le religioni: quella cosmologica di mia madre e quella cattolica di mio padre.
Erano bei momenti nei quali tutta la famiglia si impegnava, a partire dai primi giorni di giugno: ciascuno aveva un compito da svolgere e tutti ci si dedicavano con grande devozione.
Poichè vengo da una famiglia numerosa (quattro fratelli, tre sorelle, un cognato, mio padre e mia madre, dunque dieci persone), ognuno di noi aveva un suo ruolo.
Mia madre teneva moltissimo a questa ricorrenza, attraverso la quale riusciva ad aggregare la gente, tanto i nativi quanto i bianchi delle fazendas dei dintorni, che davano lavoro ai nativi espropriati, diventati contadini nelle grandi piantagioni di caffè.
Per non destare sospetti la festa veniva celebrata il 24 giugno come Festa di San Giovanni, ed era molto sentita dai contadini che vivevano vicino a Villa Gandhi, era la loro festa!
E così ogni anno, già all’inizio di giugno si dava inizio ai preparativi.
Alcuni dei miei fratelli cominciavano a tagliare la legna da ardere nel falò; era un lavoro certosino perchè i tronchi venivano tagliati con diverse grandezze, in modo da poterli appoggiare uno sopra l’altro a mò di piramide.
Il falò doveva ardere per tutta la notte: quando ne rimanevano solo le braci era già l’alba e si salutava l’anno nuovo con un ultima cerimonia alla quale partecipavano solo i maschi di casa, che mettevano alla prova il loro coraggio camminando scalzi avanti e indietro sulle braci ardenti.
Tutti i miei fratelli e mio cognato tentavano la camminata, mentre mio padre, essendo cattolico, forse aveva paura che le divinità Tupy si sarebbero vendicate, così non partecipava.
Nel frattempo altri fratelli, guidati da mio cognato, preparavano quello che chiamiamo “mastro”, una specie di totem: veniva scelto l’albero adatto, doveva essere alto e dritto, e una volta tagliato il tronco lo si portava nel piazzale davanti casa per addobbarlo. A parte si costruiva un triangolo, che andava posizionato sulla sommità, rivolto al cielo. Sul triangolo venivano fissati tre arazzi, ognuno dei quali riportava il busto di uno dei santi del mese: sant’Antonio, san Giovanni e san Pietro.
Così tutto era pronto per il gran giorno.
Intanto le donne cucinavano: mia madre cuoceva il pane e ci riempiva dei sacchi, perchè non doveva mancare durante la cerimonia, poi preparava dolci di patata, dolci di zucca, di latte, e tutto veniva custodito in un luogo in casa.
Quando arrivava il 23 si cominciava la preparazione della festa, che sarebbe iniziato al tramonto del 23 per terminare all’alba del 24.
Poco distante da casa si riempivano delle tinozze d’acqua, per la cerimonia dell’acqua che in passato veniva svolta al fiume. Poi veniva preparato l’altare nella sala, i fuochi d’artificio non potevano mancare come pure “o quentao”, una bevanda calda fermentata, dato che a giugno le notti erano già abbastanza fredde. Così tutto era pronto.
Appena iniziava il crepuscolo la gente cominciava ad arrivare senza appuntamento: ormai era scontato, il 23 giugno tutti a casa mia per festeggiare il capodanno Tupy.
Alle 18 si dava inizio alla cerimonia del fuoco, con l’accensione del falò. Dopodichè mio padre celelbrava il rosario. La festa era cominciata, il piazzale era colmo di gente e intorno al fuoco si raccontavano storie di vita, mentre i giovani si fidanzavano e i bambini si divertivano a far scoppiare i tricche-tracche, veniva servito il pane con il dolce ed il quentao, alcuni cantavano, altri si confidavano, altri facevano piani per il futuro, altri ballavano.
Il clima era gioioso ed io sono stata fortunata ad essere stata cresciuta con questa diversità di persone umili, tutte protette dall’amore di mia madre e dal suo desiderio di tramandare il rispetto e l’amore universale come valore principale della cultura Tupy, figli e guardiani della natura sacra.
Giunta una certa ora iniziava la cerimonia dell’aria, si innalzava il mastro allo stesso posto di quello dell’anno passato, che veniva tolto. Quell nuovo sarebbe rimasto in piedi fino all’anno seguente, per essere sostituito da un altro a mezzanotte precisa.
C’era la cerimonia dell’acqua, in passato si svolgeva sul fiume, ma poichè i fiumi intorno a Villa Gandhi erano stati tutti espropriati e recintati si usavano le tinozze piene d’acqua. Si partiva uno dietro l’altro in processione, ad imitare l’esodo dei nativi cacciati dalle terre, e a mano a mano si arriva, ci si fermava e si fissava l’acqua, se vedevi il tuo viso riflesso avresti avuto ancora un anno da vivere, chi invece non vedeva il proprio riflesso sarebbe morto entro l’anno.
Nella cultura cosmologica siamo un riflesso inviato sulla Terra attraverso il grande specchio cosmico, e dunque il significato di non avere riflesso significava essere morti: in questa cerimonia è concentrata la simbologia della nascita e della morte materiale, dunque l’acqua e la terra, e con questa si chiudeva la simbologia alchemica dei quattro elementi.
Questa era la festa del solstizio d’inverno nella cultura Tupy.
La cerimonia dell’ancestrale spirito, del fuoco, dell’aria, dell’acqua e della terra!